Amanda Gorman. Chiunque si interessi di letteratura e poesia oggi parla di lei, la poetessa afroamericana che ha letto all’insediamento del presidente Biden. Tutte le femministe americane l’hanno eletta a nuovo idolo. Così come idolo è diventato degli Obama e di tutti i maggiori esponenti del politicamente corretto democratico.
E a me – sarà che ho letto la Bibbia – gli idoli spaventano moltissimo. Specialmente quando sono costruiti con scopi precisi.
Per capire cosa c’è dietro Amanda Gorman basta leggere ciò che scrive. Discorsi politici fortemente militanti, divisivi, appartenenti a un’unica fazione. Qualche rarefatto riferimento poetico.
Vediamo per esempio ciò che ha letto all’insediamento del Presidente Biden (traduzione mia):
THE HILL WE CLIMB (LA COLLINA CHE SCALIAMO) di Amanda Gorman
by Amanda Gorman When day comes, we ask ourselves where can we find light in this never-ending shade? The loss we carry, a sea we must wade. We’ve braved the belly of the beast. We’ve learned that quiet isn’t always peace, and the norms and notions of what “just” is isn’t always justice. And yet, the dawn is ours before we knew it. Somehow we do it. Somehow we’ve weathered and witnessed a nation that isn’t broken, but simply unfinished. We, the successors of a country and a time where a skinny Black girl descended from slaves and raised by a single mother can dream of becoming president, only to find herself reciting for one. And yes, we are far from polished, far from pristine, but that doesn’t mean we are striving to form a union that is perfect. We are striving to forge our union with purpose. To compose a country committed to all cultures, colors, characters, and conditions of man. And so we lift our gazes not to what stands between us, but what stands before us. We close the divide because we know, to put our future first, we must first put our differences aside. We lay down our arms so we can reach out our arms to one another. We seek harm to none and harmony for all. Let the globe, if nothing else, say this is true: That even as we grieved, we grew. That even as we hurt, we hoped. That even as we tired, we tried. That we’ll forever be tied together, victorious. Not because we will never again know defeat, but because we will never again sow division. Scripture tells us to envision that everyone shall sit under their own vine and fig tree and no one shall make them afraid. If we’re to live up to our own time, then victory won’t lie in the blade, but in all the bridges we’ve made. That is the promise to glade, the hill we climb, if only we dare. It’s because being American is more than a pride we inherit. It’s the past we step into and how we repair it. We’ve seen a force that would shatter our nation rather than share it. Would destroy our country if it meant delaying democracy. This effort very nearly succeeded. But while democracy can be periodically delayed, it can never be permanently defeated. In this truth, in this faith, we trust, for while we have our eyes on the future, history has its eyes on us. This is the era of just redemption. We feared it at its inception. We did not feel prepared to be the heirs of such a terrifying hour, but within it, we found the power to author a new chapter, to offer hope and laughter to ourselves. So while once we asked, ‘How could we possibly prevail over catastrophe?’ now we assert, ‘How could catastrophe possibly prevail over us?’ We will not march back to what was, but move to what shall be: A country that is bruised but whole, benevolent but bold, fierce and free. We will not be turned around or interrupted by intimidation because we know our inaction and inertia will be the inheritance of the next generation. Our blunders become their burdens. But one thing is certain: If we merge mercy with might, and might with right, then love becomes our legacy and change, our children’s birthright. So let us leave behind a country better than the one we were left. With every breath from my bronze-pounded chest, we will raise this wounded world into a wondrous one. We will rise from the golden hills of the west. We will rise from the wind-swept north-east where our forefathers first realized revolution. We will rise from the lake-rimmed cities of the midwestern states. We will rise from the sun-baked south. We will rebuild, reconcile, and recover. In every known nook of our nation, in every corner called our country, our people, diverse and beautiful, will emerge, battered and beautiful. When day comes, we step out of the shade, aflame and unafraid. The new dawn blooms as we free it. For there is always light, if only we’re brave enough to see it. If only we’re brave enough to be it. |
di Amanda Gorman Quando arriva il giorno, ci chiediamo dove possiamo trovare luce in questa ombra infinita? La perdita che portiamo, un mare che dobbiamo guadare. Abbiamo sfidato il ventre della bestia. Abbiamo imparato che la tranquillità non è sempre pace, e le norme e le nozioni di ciò che è “giusto” non sono sempre giustizia. Eppure, l’alba è nostra prima che ce ne possiamo accorgere. In qualche modo ce la facciamo. In qualche modo abbiamo resistito e visto una nazione che non è rotta, ma semplicemente incompiuta. Noi, i successori di un paese e di un tempo in cui una magra ragazza nera discendente da schiavi e cresciuta da una madre single può sognare di diventare un presidente, solo per ritrovarsi a recitare per un altro. E sì, siamo tutt’altro che raffinati, tutt’altro che puri, ma questo non significa che stiamo cercando di formare un’unione perfetta. Ci stiamo sforzando di forgiare la nostra unione con uno scopo. Per comporre un paese devoto a tutte le culture, colori, caratteri e condizioni dell’uomo. E così alziamo lo sguardo non su ciò che ci divide, ma su ciò che ci sta davanti. Colmiamo il divario perché sappiamo, per mettere il nostro futuro al primo posto, che dobbiamo prima mettere da parte le nostre differenze. Deponiamo le armi per tendere le braccia l’uno all’altro. Non cerchiamo di ferire nessuno, armonia per tutti. Che il globo, se non altro, dica che questo è vero: Che anche mentre soffrivamo, crescevamo. Che anche se ferivamo, speravamo. Anche se ci siamo stancati, ci abbiamo provato. Che saremo legati per sempre, vittoriosi. Non perché non conosceremo mai più la sconfitta, ma perché non semineremo mai più divisioni. La Scrittura ci dice di immaginare che ciascuno siederà sotto la propria vite e il proprio albero di fico e nessuno lo spaventerà. Se vogliamo essere all’altezza del nostro tempo, allora la vittoria non sarà nella lama, ma in tutti i ponti che abbiamo costruito. Questa è la promessa con la quale arrivare in una radura, la collina che stiamo scalando, se solo osiamo. È perché essere americani è più di un orgoglio che ereditiamo. È il passato in cui entriamo e come lo ripariamo. Abbiamo visto una forza che distruggerebbe la nostra nazione piuttosto che condividerla. Avrebbe distrutto il nostro paese se avesse significato ritardare la democrazia. Questo tentativo ce l’ha quasi fatta. Ma mentre la democrazia può essere periodicamente ritardata, non potrà mai essere sconfitta definitivamente. Confidiamo in questa verità, in questa fede, perché mentre abbiamo i nostri occhi sul futuro, la storia ha i suoi occhi su di noi. Questa è l’era della giusta redenzione. L’abbiamo temuta all’inizio. Non ci sentivamo pronti ad essere gli eredi di un’ora così terrificante, Ma al suo interno, abbiamo trovato il potere di scrivere un nuovo capitolo, per offrire speranza e risate a noi stessi. Così, mentre una volta ci siamo chiesti, “Come potremmo mai prevalere sulla catastrofe?” ora affermiamo, “Come potrebbe la catastrofe prevalere su di noi”. Non torneremo a quello che era, ma ci sposteremo verso quello che sarà: Un paese schiacciato ma intero, benevolo ma audace, feroce e libero. Non saremo capovolti o interrotti da alcuna intimidazione perché sappiamo che la nostra inazione e inerzia saranno l’eredità della prossima generazione. I nostri errori diventano il loro fardello. Ma una cosa è certa: Se uniamo la misericordia con il potere, e il potere con il diritto, allora l’amore diventerà la nostra eredità e il nostro cambiamento, il diritto di nascita dei nostri figli. Lasciamoci quindi dietro un paese migliore di quello che ci è è stato lasciato. Con ogni respiro di cui il mio petto martellato in bronzo sia capace, eleveremo questo mondo ferito in un mondo meraviglioso. Risorgeremo dalle colline dorate dell’ovest. Risorgeremo dal nord-est spazzato dal vento, dove i nostri antenati per primi realizzarono la rivoluzione. Risorgeremo dalle città lacustri degli stati del Midwest. Risorgeremo dal sud baciato dal sole. Ricostruiremo, riconcilieremo e ci riprenderemo. In ogni angolo conosciuto della nostra nazione, in ogni angolo chiamato Paese, la nostra gente, diversa e bella, emergerà, malconcia e bella. Quando arriverà il giorno, usciremo dall’ombra, in fiamme e senza paura. La nuova alba fiorisce mentre la liberiamo. Perché c’è sempre luce, se solo saremo coraggiosi abbastanza da vederla. Se solo saremo coraggiosi abbastanza da essere noi stessi luce. |
Difficile sempre dire cosa sia o cosa non sia poesia. Di certo questo è un discorso politico, condito con qualche immagine presa da Walt Whitman e da altri poeti americani.
D’altra parte Amanda Gorman lo dichiara espressamente: vuole fare il presidente. La sua ambizione è politica. E il suo è un semplice discorso politico, un comizio rivolto a metà degli americani, quelli che votano Democratici.
Definisce, biblicamente “il ventre della bestia” la presidenza Trump. Il quale (il riferimento è davvero palese) “Avrebbe distrutto il nostro paese”.
In certi punti sembra una poesia celebrativa di una battaglia: “Non perché non conosceremo mai più la sconfitta, ma perché non semineremo mai più divisioni”. Ma il soggetto del verbo non è “l’America”, questa battaglia non l’ha combattuta la nazione. Ma solo una parte di essa contro un’altra parte.
Allora perché definire poesia il suo primo discorso pubblico da militante politica che vuole fare il presidente?
Il contenuto delle sue parole
Il contenuto, se analizzato, pur nella sua semplicità è spaventosamente ideologico. Si parte dal solito egalitarismo:
“dobbiamo prima mettere da parte le nostre differenze”
come se le differenze fossero il nemico da abbattere. Dogma numero uno del politicamente corretto. A cui Amanda Gorman sembra aderire pienamente. Chi non crede al politicamente corretto pensa che se questa vuole essere un’era di pace, non può basarsi su una menzogna – ossia che le differenze non esistono – ma sulla verità, ossia che le differenze ci sono e la sfida umana è farle convivere.
“È il passato in cui entriamo e come lo ripariamo”.
L’idea della riscrittura del passato è un tema centrale per le frange radicali del pensiero politicamente corretto. Come di ogni pensiero unico. Non dimentichiamo che negli Stati Uniti abbattono le statue di Cristoforo Colombo o di altri personaggi del passato, bollati, con il filtro ideologico di oggi come “razzisti” o “sessisti”. Questo, sì, terrorizzante e totalizzante. Gente che non ha letto neppure Orwell.
“Questa è l’era della giusta redenzione”, definita “ora terrificante”.
Ma cosa vorrà realmente dire? Un ulteriore riferimento alla rivoluzione culturale con cui il politicamente corretto americano sta riscrivendo la storia e l’identità umana? A cosa alluderà Amanda Gorman con quel “terrificante”?
Ce lo dice, “quello che sarà”: “Un paese schiacciato ma intero, benevolo ma audace, feroce”.
Feroce. Come quello che prima delle elezioni ha messo a ferro e fuoco il paese? O come quello che è entrato nei palazzi delle istituzioni? Cosa dobbiamo aspettarci dagli Stati Uniti?
E aggiunge: “Non saremo capovolti o interrotti da alcuna intimidazione”.
Amanda Gorman a me ha ricordato la Khalisi, Daenerys Targaryen di Games of Thrones. Aveva appassionato tutti all’inizio con i suoi slogan un po’ buonisti e di facile comprensione. Sappiamo com’è finita.
Io, sinceramente, da questa Amanda Gorman e della “ferocia” così cieca, superficiale e partigiana delle parole che scrive sono semplicemente terrorizzato.
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