Maratona di Ravenna: qui ho capito quanto è dura la zucca degli italiani. E soprattutto dei ravegnani
Questa mattina c’era la maratona di Ravenna, un evento che abbraccia tutta la città con lo sport e che, con quasi 2500 iscritti (e forse anche di più), porta a Ravenna gente da tutta Italia. Esco di casa per andare a Messa a San Vitale (la Romagna è il posto più bello del mondo), in pieno centro in zona pedonale, e vedo una fila di macchine ferme in via Cavour. La maratona passava da via Argentario, altra via pedonale con cui si incrocia, quindi bisognava fermare il traffico. E gli autisti di queste macchine suonavano il clacson. Erano in fila, fermi, con la maratona di Ravenna che passava davanti a loro. E suonavano il clacson rabbiosi. Da giorni c’erano cartelli ovunque per avvertire che molte strade sarebbero state chiuse. Ma loro suonavano. Tanto che a un certo punto qualcuno lamentandosi ha fatto pure scendere da una macchina una signora imbufalita con occhi di fuoco. Rissa sfiorata.
E in questa immagine ho visto proiettarsi i più comuni e diffusi schemi mentali del’infelicità. Ciascuna di queste persone aveva una visione di come le cose sarebbero dovute andare: dovevano passare liberamente. Poco importava se questo avrebbe bloccato la maratona. Loro dovevano passare. Il loro punto di vista individuale arriva qui. E visto che la realtà differiva dal loro immaginato nel corpo si sono ritrovati la rabbia. Che hanno sfogato sui clacson. Ma nessuno di quei suonatori ha capito che il loro punto di vista si scontrava con quello delle migliaia di persone coinvolte nella maratona. Nessuno si è accorto che non era possibile passare senza danneggiare lo svolgimento della maratona. E qui sta il male più profondo del nostro Occidente: l’individualismo più sfrenato. L’incapacità cioè di innestare i nostri punti di vista individuali in più complessivi punti di vista collettivi. Aspettare cinque minuti in fila non è un prezzo individuale particolarmente alto per far riuscire un evento comunitario e collettivo che coinvolge tutta la città. Eppure quei 5 minuti sono stati sufficienti per far crescere la rabbia.
Ecco perchè dalla maratona di Ravenna ho tratto un insegnamento importante per la costruzione della felicità: tutte le volte in cui un mio punto di vista non mi fa star bene bisogna innestarlo in una visione più complessiva. Bisogna aprirsi insomma agli altri. Lì sta la felicità. Grazie alla maratona di Ravenna.
P.S. in dialetto gli abitanti di Ravenna si chiamano ravgnè. I veri ravennati si chiamano ravegnani. Tutti gli altri ravennati.
Lascia un commento